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Chi sono

Chi sono
Amabile Giusti si addormenta la sera sognando di scrivere, si sveglia la mattina con lo stesso chiodo fisso in testa, non è escluso che perfino davanti a un giudice, mentre perora una causa, la sua mente divaghi pensando a come plasmare una storia o finire un capitolo. È un tipo che ascolta molto e parla poco ma quando scrive non si ferma più...
Se volete farla contenta regalatele un saggio su Jane Austen, un ninnolo di ceramica (preferibilmente blu), un manga giapponese, o una piantina grassa (più spine ci sono meglio è). Preferibilmente tutti insieme. Spera di invecchiare lentamente (perché questo pare sia l’unico modo per vivere a lungo...) ma mai invecchiare dentro! Dentro avrà sempre un’età con poco passato e molto futuro e scarsa saggezza.

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domenica 10 novembre 2013
La notizia è ufficiale, sto scrivendo il seguito di Cuore nero. In modo discontinuo ancora, ma è già qualcosa rispetto al "non so quando lo scriverò". Però, un po' di incoraggiamento magari mi invoglia a muovermi con meno flemma, o chissà, qualche bastonata mi indurrà a fermarmi e tanto basta. Fate voi... Intanto, giusto per mettermi alla prova, eccovi il primo capitolo. Giulia è a Roma dove studia all'università. E una sera, mentre rientra da una cena in casa del padre e della sua nuova compagna ( non ne ha voluto sapere di vivere con loro, chi la sopporta quella megera cavallina e saccente ventiquattro ore al giorno?), si imbatte in qualcosa di strano. Sarà la prima di molte stranezze. Che ne pensate? Vado avanti o mi fermo ignominiosamente?
L'immagine che allego è tratta dal web, non so a chi appartenga, non intendo farne un uso commerciale, è solo che mi pareva esprimesse un'emozione adeguata. BACI

CUORE NERO 2
Primo capitolo


Giulia fece ruotare più volte la chiave nel quadro dell’auto, ma il sospirato rombo del motore non giunse: il massimo che ottenne fu una tosse rachitica, e subito dopo un clic di commiato, come uno schiocco secco fatto con la lingua. Diede un colpo al clacson, e quello ragliò con la stessa stanchezza del motore.

“Dannato catorcio!” esclamò, mandando accidenti a quel povero ferrovecchio, una FIAT Panda, modello praticamente prebellico, color bianco vasca da bagno, che si era comprata da sola. Avrebbe fatto meglio ad accettare l’offerta di suo padre di accompagnarla e, ancora prima, di comprarle una macchina decente: almeno adesso non si sarebbe trovata lì, sotto una pioggia torrenziale, in piena notte, a domandarsi in che modo tornare a casa. E invece, per quanto si sforzasse di illudersi che si trattava di un sogno - ora mi sveglio e sono nel mio caldo lettino, rintanata come una cimice dei materassi– non c’era verso di trovarsi se non lì, in un abitacolo stretto, freddo, umido e pieno di briciole di Pringles.

La pioggia batteva sonoramente sul tetto. Ogni tanto altre automobili sfrecciavano nel buio sollevando tanta acqua da sommergerla. Nessuno si fermava, accidenti a loro.

Non che fosse opportuno, a quell’ora, augurarselo: c’era sempre la possibilità di imbattersi in qualche brutta faccia. Roma non era Palmi dopotutto, nel bene e nel male. Ma insomma, possibile che nessuna anima buona si accorgesse di quell’auto arenata sul ciglio del marciapiede e della sua disperata occupante?

Sbuffò più volte, frugando nella borsa in cerca del cellulare. Lo trovò sotto una catasta di cianfrusaglie, e disse una parolaccia quando si accorse che non c’era linea. Nemmeno una misera tacchetta. E, per giunta, la batteria era quasi scarica.

Le venne da ridere dinanzi a tutti quei contrattempi. Sembrava che il destino si stesse divertendo a darle gomitate. Se qualcuno si fosse preso la briga di sbirciare dentro l’auto, avrebbe notato una ragazza con un basco di lana rossa sui ricci e un montgomery blu, che sghignazzava come se fosse matta da legare. Aveva le lacrime agli occhi perfino, e batteva i palmi sul volante.

Che assurda situazione!

Poi, via via, le risate si smorzarono, e il bombardamento della pioggia parve diventare più minaccioso, come se volesse punirla per non averla presa sul serio.

Giulia rimase ferma per un po’ a guardare fuori dal finestrino, la strada-lago, e l’immagine di se stessa riflessa confusamente nel vetro appannato.

Be’, non poteva certo restare lì fino all’alba. Aveva fame, faceva un freddo dannato, in tv davano Teen Wolf, e temeva che, a breve, il livello dell’acqua avrebbe raggiunto il tetto dell’auto riempiendola e trasformandola in un acquario. 

Dopotutto, era lontana ma non lontanissima, e poteva contare su numerosi balconi da usare come riparo. In pochi minuti ce l’avrebbe fatta, e in effetti la pioggia sembrava meno forte adesso…

Non se lo fece ripetere due volte.          

Indossando la borsa a tracolla, aprì rapidamente lo sportello della macchina. Il vento le congelò il naso e le ciglia. Brancolando, già inzuppata fino alle ossa, chiuse l’auto e scappò verso il marciapiede. Avrebbe potuto allevare trote negli stivali tanto erano pieni d’acqua.

Si mise in moto, con le mani nelle tasche e il viso coperto dalla sciarpa umida.

Roma appariva morta sotto quel cielo tanto basso e scuro da sembrare il tetto di una stanza. Perfino le sporadiche auto di qualche minuto prima avevano smesso di transitare.

“Io sono leggenda!” gridò Giulia ridendo.

Stava per svoltare un angolo, quando, del tutto inaspettatamente, avvertì un colpo contro il petto, come se qualcuno nascosto dietro la curva le avesse sferrato un pugno, non tanto forte da farle male, ma abbastanza da agghiacciarle il coraggio. Si fermò, col cuore in gola, spaventata, e si guardò prudentemente intorno. Trattenne il fiato fino a quando non si accorse di cosa era successo.

Nessun energumeno armato di spranga dinanzi ai suoi occhi lavati, bensì semplicemente un gatto: grosso, grigio e digrignante.

Un gatto che, chissà come e chissà perché, in quel terremoto d’acqua e di vento, non aveva trovato niente di meglio da fare che spiccare un salto da circo e avvinghiarsi con le unghie al suo cappotto. Adesso se ne stava lì, aggrappato come una pelosissima calamita, col muso raggrinzito in una smorfia di sfida e paura, e la coda tesa.

Ma non fu solo il gatto.

Benché Giulia non si fosse sognata nemmeno di suonare qualcosa di vagamente somigliante a un flauto magico, intorno alle sue gambe si era data appuntamento una discreta banda di bestiole. Due gattoni color fango, uno stranissimo cane che sembrava un incrocio fra una mucca e un furetto, un altro cane con una gamba zoppa e un orecchio masticato, un cucciolo simile a un cactus, e numerosi topi, che per fortuna non sostarono, limitandosi a una fuga in massa verso la strada.

I gatti, nonostante la pioggia, avevano una cresta di pelo sulle schiene. I cani ringhiavano mostrando i canini e orinando lungo il muro.

Cosa stava succedendo?

Il gatto finitole in braccio saltò giù con agilità, unendosi ai suoi colleghi di ringhio. Tutti puntavano il vicolo. Era come se fossero stati spodestati da un animale più grosso e più temibile.

Giulia deglutì. Le venne in mente un film che aveva visto da piccola – c’era una tigre scappata dal circo, una città in subbuglio e una bambina coraggiosa – e si domandò se per caso non stesse accadendo qualcosa del genere. C’era un circo in città che si era perso per strada le tigri? Se lo sarebbe augurato, lei odiava i circhi con animali, ma incontrarne una adesso non era il massimo…

Rise nervosamente, avanzando di qualche passo.

Quando fu davanti alla viuzza non vide altro che una stradina inzaccherata di rifiuti, probabilmente il banchetto dei randagi. Non c’erano tigri, ma solo il corpo di un altro gatto. Era steso di lato, immobile. Ormai bagnata fino alle ossa, Giulia si avvicinò ed emise un grido di raccapriccio.

Il povero micio era chiaramente morto, ma non fu solo questo a spaventarla. Ciò che le fece portare una mano alle labbra e sgranare gli occhi e palpitare ancor più follemente il cuore fu l’aspetto di quel corpicino. Era floscio come un guanto. Sulla gola aveva una ferita e un grumo di sangue secco tutt’intorno. Gli occhietti, spalancati e fissi, sembravano palline di vetro.

Giulia rabbrividì, stringendosi nelle spalle, come se non fosse soltanto la pioggia a darle freddo. Povero piccolo, chissà cosa gli era accaduto….

Intirizzita, e più che mai desiderosa di rientrare a casa, tornò sui suoi passi.

Tuttavia quando fu di nuovo all’imboccatura del vicolo – e tutti i randagi erano spariti chissà dove – si fermò di colpo. Perché mai dovesse farlo - paralizzarsi come una scultura di sale invece di darsela decisamente a gambe – non era cosa alla quale potesse ancora dare una spiegazione. Ma di fatto rimase lì, nonostante la sensazione – no, la convinzione - di non essere più sola. Non c’era luce e nessuna ombra si proiettava sulla via. La pioggia sferzava le cose coprendo col suo rumore ogni altro rumore. Tuttavia, seppe di avere qualcuno alle spalle, e non si trattava di un gatto.

Piegò leggermente il capo da un lato, senza girarsi, e con la coda della coda di un occhio afferrò il contorno di una sagoma alta. Vicina, così vicina da chiedersi come avesse fatto, pur con tutto il temporale del mondo, a non averla udita arrivare. La sentiva incombere come se facesse parte di lei, come se fosse fatta dei suoi stessi capelli, dei suoi stessi vestiti, della stessa acqua che le colava dalle dita e dagli orli dei pantaloni. Percepì uno strano, inesprimibile freddo, non di pioggia, non d’inverno e vicolo buio e notte romana senza guanti, non un freddo sensato insomma. Un freddo come di morte. Le parve che il cuore fosse quasi sul punto di rompersi. Cominciò a piangere senza volerlo, senza riuscire a controllarsi. Le lacrime erano diverse dalla pioggia perché erano calde e entrando in bocca pizzicavano come acqua di mare.

La figura – un uomo probabilmente, più alto di lei, silenzioso come un fantasma - si avvicinò ancora, ne percepiva quasi il contatto sulla schiena. Avrebbe voluto - dovuto – muoversi ma, senza una logica, rimase inchiodata al suolo, inamidata nella stessa posa.

Dopo un tempo dall’apparenza interminabile, si girò di scatto, comandando al proprio cervello di scollarsi di dosso il vinavil, di scuotersi, di affrontare quello che c’era da affrontare.

Ma non c’era più nessuno.

Il vicolo stretto.

Il gatto molle.

Tetri coriandoli di pattume.

Nulla di più.

Giulia rimase così, a fissare una parete di mattoni e una di pioggia.

Si accorse solo in quel momento di avere il fiatone: rantolava come un asmatico e non aveva smesso di piangere. Tuttavia non attese di calmarsi. Tornò correndo sulla strada principale, e più andava più si sentiva pesante, come se la pioggia le avesse riempito le tasche di sassi.

Quando fu davanti al portone tirò fuori le chiavi dalla borsa - non senza prima averle confuse con un blister di mentine, un bacio Perugina e un sacchetto di Miniritz – ed entrò. Salì le scale come se avesse dei razzi sotto le suole.

L’interno dell’appartamento era illuminato e odoroso di caffè forte. Era una vecchia casa coi soffitti alti e le pareti massicce. Un corridoio di graniglia grigia separava le stanze, e dal soffitto pendeva un grosso lampadario di vetro a forma di globo dipinto tutt’intorno con dame e signori dall’aria settecentesca.

Giulia si fermò al di qua della soglia, con la schiena contro il portoncino chiuso, respirando affannosamente.

“Hai una faccia!” esclamò preoccupata una ragazza appena uscita da una delle stanze. Era una brunetta alta, formosa, con lunghissimi capelli da principessa e in mano una tazzina fumante. Portava occhiali dalla montatura rossa, e lungo il profilo di un orecchio una catenella di minuscoli cerchietti d’argento. Era scalza e indossava una tuta di pile d’un lilla acceso.

“E stai rovinando il mio marmo” le fece notare un’altra ragazza con un tono puntiglioso. Aveva un viso aguzzo, contornato da una torre di bigodini, biondo fino alle sopracciglia, e le indicava con aria prepotente la striscia di pavimento sul quale la pioggia raccolta si riversava, creando un laghetto scuro che pareva di sangue.

Giulia si guardò allo specchio sopra la consolle dell’ingresso e capì il senso delle parole di Sonia. Non era solo l’acqua di cui aveva fatto indigestione, non solo l’effetto del vento e dei capelli rammolliti e del mascara finitole nelle narici, non soltanto la fatica dei gradini ingoiati.

C’era qualcosa di più di quello sulla sua faccia.

Aveva un’espressione inquietante. Sconvolta a dir poco, le labbra socchiuse, le guance avvampate, la fronte corrugata, e un fiatone corposo, sordo, animale. Si fece paura osservandosi, ed ebbe paura soprattutto accorgendosi che, in quei lunghi minuti - dal vicolo fino a quel preciso istante - non aveva pensato a nulla di nulla, e un simile vuoto non era una cosa solita per lei. Lei di solito pensava sempre, pensava troppo, non c’era istante in cui il suo cervellino riuscisse a non stremarsi schiacciato da tutte le idee, i castelli in aria, i ragionamenti e le congetture che era costretto a sopportare per colpa della sua indole e della sua fantasia. Adesso, invece - dal vicolo allo specchio - era come se le si fosse azzerata la testa. Nessun dato, nessun file. Solo quell’infelicità purissima, quasi selvatica, quasi come se il cuore potesse fare la fine del limone, ma nessun pensiero. Non si era detta niente mentre correva, ed era quasi certa di essere scappata non per il timore che le accadesse qualcosa di male, ma per allontanarsi da quel dolore improvviso, da quella tristezza più pesante della pioggia.

Adesso i pensieri tornavano, tutti insieme, affollandola. Facevano perfino rumore, come scoiattoli stipati in una stanza. Ed erano stupidi come la media dei suoi soliti pensieri.

Cosa è successo? Chi c’era? C’era davvero qualcuno? Non è che stai diventando matta per il troppo - si fa per dire - studio? O magari è colpa delle piste di nutella che ti spari ogni giorno? Forse ha ragione Tiziana, forse mandi giù troppi zuccheri?

Provò a riordinare il respiro, mentre Sonia e Elena la sbirciavano, la prima con apprensione, la seconda con dispetto.

“Tutto bene?”

“Vuoi smetterla di bagnarmi il pavimento?”

Non rispose a nessuna. L’istinto - quel maledetto monello moccioso - le suggerì di restare ancora un tantino a inzuppare quel centimetro cubo di granito già sciupato, giusto per fare un dispetto a Elena.

Ma non aveva la forza di essere dispettosa. Voleva solo togliersi da lì, e restare sola per mettere in fila tutti quegli scoiattoli e tentare di capire perché si sentiva in quel modo.

“Tutto ok” disse semplicemente, e raccontò per sommi capi quello che le era capitato. Solo i fatti, però, non le sensazioni. Non l’assurda certezza di aver avuto qualcuno alle spalle, nella viuzza, qualcuno che le aveva sfiorato i capelli e che si era chinato in avanti, fino al suo collo, annusandola. Ma ovviamente era impossibile, e per quanto Sonia le fosse simpatica e Elena odiosa – due motivi apparentemente validi per confidarsi con la prima e mettere paura alla seconda – preferiva tenere per sé quella strana collezione di impressioni.

Quando fu sola nella propria stanza, si spogliò frettolosamente. Si concesse una doccia calda, nel piccolo bagno piastrellato di bianco che lei e Sonia condividevano, e di nuovo si vide allo specchio, in mezzo al vapore, e di nuovo non si riconobbe subito. Aveva ancora quell’espressione un po’ sgomenta, quel boccolo di rughe sulla fronte. Ancora, il cuore le batteva in modo insolitamente veloce.

Forse stava realizzando solo adesso di aver corso un pericolo. Il suo corpo scaricava adrenalina a fiotti. Eppure…

In quel momento, udì la voce di Sonia dietro la porta. Trasalì come se si stesse svegliando di soprassalto.

“Non è che ti sei ubriacata stasera, eh?”

Giulia le aprì la porta, avvolta in un accappatoio di spugna arancione. L’amica, che trangugiava l’ennesimo caffè delle sue solite nottate di studio e chat e niente sonno, si appoggiò con una spalla contro lo stipite.

“Sei ciucca completa?” insisté, abbozzando un sorriso.

“Se un piatto di capellini all’olio, mezzo carciofo bollito e una mela ubriacano, allora sono ciucca sì.”

“Tuo padre ti tiene a stecchetto?”

“Non mio padre, la sua compagna, che poi è la stessa cosa, perché è lei che comanda la baracca. Cucina bene, ma per me niente leccornie. Dice che sono tanto carina ma anche tanto grassa. Cioè lei dice paffutella, è molto politically correct, ma intende proprio grassa, si vede da come mi guarda.”

“Non è che per la fame ti sei scolata un goccetto?”

“Se pure ci avessi pensato, credo che l’unico goccetto disponibile in casa fosse lo sciroppo per la tosse o al massimo l’acetone per le unghie. Ma perché pensi che sia sbronza?”

“Non hai detto che ti si è fermata la macchina in mezzo alla strada a un chilometro buono da qui?”

“L’ho detto, e allora?”

Sonia l’afferrò da una manica. La trascinò fino in cucina, al cui tavolo Elena stava sorbendo una camomilla da una grossa tazza bianca. Davanti ai suoi occhi un ciclopico volume di istologia era aperto su una pagina tremendamente illustrata.

Raggiunsero la finestra, sulla quale la pioggia non aveva smesso di bussare a piene nocche. Sonia le indicò giù, verso la strada.

Giulia spalancò gli occhi, stupita. Di nuovo fu come se non avesse pensieri, come se la testa le si stesse svuotando. Di nuovo le rimase dentro solo un’appiccicosa, sconcertante, sensazione di dolore, che non poteva avere nulla a che fare con ciò che vedeva, con la stranezza di una cosa che non riusciva a spiegare ma che di certo non avrebbe dovuto farla sentire così, come se una picca le infilzasse la gola.

Pigiò il viso contro il vetro freddo.

La vecchia Panda comprata coi suoi risparmi, che poco prima l’aveva mollata in balìa del diluvio universale, dei gatti svenati e della fifa blu, era lì sotto, proprio davanti al portone.

Era lei, non c’erano dubbi. Lucida d’acqua e perfettamente parcheggiata.             

“Delle due l’una” osservò Sonia ridendo “O sei davvero brilla, o qualche anima pia che ti conosce, che so un nostro vicino, l’ha vista, l’ha riconosciuta e te l’ha riportata.”

“Le chiavi”

“Che?”

“Le chiavi… le ho io, non le ho lasciate nell’auto.”

“Al mio paese le auto, soprattutto quelle tanto vecchie, partono anche senza chiavi, basta smanettare un po’” disse Sonia scrollando le spalle.

Giulia non rispose. Era troppo agitata. Non era in grado di darsi una risposta soddisfacente. L’unica cosa che riuscì a dire, con voce pigra rivolta a Elena, fu:

“Mi versi un po’ della tua camomilla in un’altra tazza, per favore?”
venerdì 1 novembre 2013


Trent'anni e li dimostro di Amabile Giusti ( prossima pubblicazione)

Ecco a voi, lettrici adorate, in assoluta anteprima, il primo capitolo del mio nuovo romanzo che uscirà a breve, questione di poche settimane. Lo sto ancora sistemando. A tempo debito saprete in quale store, in che formato e a che prezzo.  Si tratta di un chick-lit, allegro, pepato, romantico, leggero, da ingoiare in pochi bocconi e al quale dedicare qualche ora di relax. Niente che passerà alla storia della letteratura, ma sufficiente a svagare la mente per un po'. Spero vi piaccia, se vi attira il genere "letteratura per pollastrelle". Io mi sono divertita a scriverlo, mi auguro voi vi divertirete a leggerlo. Intanto, assaggiate il primo capitolo così vi fate un'idea. Non si compra nulla a scatola chiusa, ed è proprio per evitarvi un salto nel vuoto con tanto di ginocchia sbucciate in fase di atterraggio ( visto che siete abituate a un mio stile di scrittura del tutto diverso) che vi offro questo antipastino!


UNO

La ragazza ha un culo che assomiglia a un mandolino di teak, e indossa uno spaghetto di seta maculata che spaccia per mutanda.
Sta rovistando nel frigo, tra un pezzo di formaggio non proprio fresco e un grappolo di pomodori, a caccia di una lattina di birra incollata alla parete rivestita di brina.
La fisso, e mi trema una palpebra per la rabbia. Avrei fatto meglio a restarmene a letto, ma come si fa a dormire quando qualcuno, nell’altra stanza, ci dà dentro fino a far tremare le pareti? Tutto quel chiasso - la porta che sbatte, le risatine sguaiate, le molle del letto che sobbalzano e il carosello di ululati in do di petto - mi ha scatenato una fame da leonessa. Certo non mi aspettavo di trovarmi al cospetto dell’urlatrice, ferma davanti al mio frigorifero, con le natiche in bella vista, le gambe da giraffa, e il mio elastico rosa nei capelli.
Se ne sta lì, sfrontata bellezza di non più di venticinque anni, a combattere con l’ostilità della lattina appiccicata, e mormora qualcosa di polemico a proposito della necessità di sbrinare il maledetto aggeggio antidiluviano.
Vorrei dirle, dannata ficcanaso, che sono io a decidere quando e come prendermi cura dei miei elettrodomestici. E aggiungere che, trattandosi di casa mia, del mio pavimento, del mio frigo, e del mio elastico di Peppa Pig, avrei tutto il diritto di infuriarmi a morte, afferrarla dal bavero e sbatterla fuori con un calcio. Be’, proprio dal bavero no, visto che indossa solo un tanga. Ma insomma, era per rendere l’idea. E invece sto zitta, ingoiando parolacce, a fissarla come se fosse fatta di concime organico, con una collera sorda dentro le costole. Una collera che non riesce a uscire, perché è sopraffatta da un’emozione più forte. Sono disperatamente gelosa. 
A quel punto, la signorina sto con le chiappe al vento e me ne vanto si accorge di non essere sola nella stanza e si volta. Ha due tette di cemento, talmente alte che quasi le sfiorano il mento.
Purtroppo è bella pure davanti. Ha i capelli rosso flambé scolpiti in un perfetto caschetto, gli occhi verdi, una bocca carnosa e denti bianchissimi, come nella pubblicità di un dentifricio whitening.
Non c’è dubbio, la odio.
Odio lei, odio che abbia fatto l’amore con Luca, odio la certezza che abbia intenzione di rifarlo, odio che critichi il mio frigo e che vaghi nuda per casa e, soprattutto, odio Luca.
Non che non capisca come mai ha tanto successo: non passa certo inosservato. Tutte le donne vorrebbero farselo e gli uomini lo detestano, a meno che non siano gay, nel qual caso se lo farebbero volentieri anche loro.
Possiede due spalle da armadio di mogano, un’amarena candita al posto della bocca, un fondoschiena di bronzo che pare trafugato a una statua greca, occhi un po’ verdi e un po’ neri, dipende dall’umore e dall’inclinazione della luce, e ride in un modo sensuale, inclinando la testa da un lato, guardando il mondo da sotto le ciglia, passandosi le mani tra i capelli castani, folti, disordinati, lunghi fino alla nuca, talmente tanti che, facendo un’indagine statistica, ci devono essere almeno cinquecento maschi nel mondo che vanno in giro calvi per colpa sua. Insomma, Luca è uno splendore.
Le mie amiche sono convinte che, ogni tanto, quando la natura chiama, la nostra casa divenga sede di incontri scoppiettanti e passionali. In realtà, da quando coabitiamo - quasi otto mesi e quindi non proprio una bazzecola - la cosa più intima che è accaduta tra noi risale al giorno in cui, stanca dell’accumularsi delle sue mutande nel cestone del bagno, ho avuto il coraggio di prelevarle una per una con una pinza da insalata e scaraventarle nella lavatrice.
Intanto, la signorina mi osserva come se tra me e il formaggio ammuffito non ci sia alcuna apprezzabile differenza, fissa il ridicolo pigiama rosso regalatomi a Natale dalla zia Porzia, le mie palpebre a chiazze e i miei capelli di lana d’acciaio.
«Avete altva bivva?» chiede, con una vezzosa assenza di erre, indicando la lattina rapita dall’iceberg che vive nel mio frigorifero.
«Piacere, io sono Carlotta!» le dico d’impulso, con un tono quasi isterico.
In quel momento arriva Luca, praticamente nudo anche lui: indossa solo un paio di slip aderenti come un guanto, il cui contenuto è fin troppo esplicito riguardo all’intenzione del suo possessore di prodursi in un'altra opera lirica.
Penso che meriterei un po’ più di considerazione, e lo perforo con gli occhi. Ma Luca mi ignora e sorride alla tipa, facendole un cenno con una mano, quasi a dirle: vieni di là bambolona, che non abbiamo finito di sollazzarci.
Lei ride, sghignazza, sembra una gallina, sembra una iena, finge di lottare, finge di sfuggire, e poi gli deposita una mano proprio , come se afferrasse un microfono in un locale di Karaoke.
Se avessi una palla da bowling li colpirei entrambi e farei strike. Li detesto, e la cosa deve leggersi chiaramente sulla mia faccia, poiché, dando segno di avermi scorta, Luca ha un sussulto, si gira verso di me, con la mano della pulzella ancora saldamente aggrappata al suo microfono, e mi chiede:
«Che ci fai alzata?».
Che razza di domanda! Vorrei fulminarlo, insieme alla sua sgualdrinella in perizoma.
Lo guardo sempre più male ma non dico nulla e lui si china per staccare la lattina dal ghiaccio. Lei allenta la presa e si siede sul tavolo. Lascia ciondolare le gambe chilometriche e allunga un piede lubrico, del tutto indifferente alla mia presenza.
«Forse nell’altro isolato non vi hanno sentiti» commento, a denti stretti «E tu, potresti spostare le chiappe da lì? È dove faccio colazione la mattina, e non ho abbastanza vetriolo per disinfettare»
La stronza con la erre moscia continua a non degnarmi di considerazione. Ride, tentando un giochino col piede. Adesso glielo taglio con la copia della katana di Gaemon che ho comprato da Fumettopoli.
Luca le porge la lattina, e poi si massaggia la mano raggelata.
«Povera Carlotta,» dice, «domani hai il tuo colloquio di lavoro, e noi ti abbiamo tenuta sveglia»
Si avvicina e mi abbraccia, come fa di solito quando vuole prendermi in giro, mi strizza le spalle e mi solleva un po’ da terra, cosa abbastanza facile visto che non sono né un colosso né un peso massimo.
Dimentica di avere l’amichetto un tantino arzillo e ne sento il turgore sulle gambe. Gli assesto un pugno, per costringerlo a liberarmi. Il contatto delle mie nocche con la sua pelle mi provoca un lungo brivido sul collo. Luca mi bacia -un bacetto sulla bocca, ma svelto, asciutto, infantile – e la giovane sconosciuta si irrigidisce e mi guarda con due occhi da serial killer.
Mi fa quasi pena, adesso.
Vorrei avvertirla che Luca non è una sua proprietà e farle sapere che, dopo la seconda scopata della notte le concederà, forse, un veloce bidet, e poi la scrollerà fuori di casa come una tovaglia piena di briciole.
Luca è disgustoso da questo punto di vista. Ha una collezione di preservativi multicolore e multigusto nel comodino e non dedica mai alle sue conquiste una seconda chance. Domani non ricorderà nemmeno la faccia di questa pesciolina fulva, non le telefonerà e non la cercherà, costringendomi a inventare un mucchio di balle quando lei chiamerà per avere un altro appuntamento.
Luca è una specie di Paganini del sesso. Non ripete mai, non con la stessa donna intendo.
Quando mi mette giù, ormai del tutto ammosciato, gli voglio di nuovo bene. In verità gli voglio sempre bene. Insomma, io adoro Luca.
Sto tutto il tempo a giudicarlo, a imbeccarlo, le nostre dispute sono note all’intero palazzo, e sono più numerose le volte in cui lo guardo furiosa di quelle in cui gli concedo la mia benevolenza. Ma è solo una posa, una maschera che indosso per dissimulare l’atroce verità: lo desidero come se fosse uno scroscio d’acqua fresca e io una piantina disidratata. Da quando c’è lui mi sento piena. Riempie la mia vita col suo disordine infernale, le sue risate, l’odore acre dei sigari che fuma, il ticchettio ritmico della sua tastiera, e la prodigiosa visione di un pacchetto completo di muscoli intagliati nel granito. Muscoli che esibisce senza alcuna riservatezza, come se fossi una cucciola di cocker spaniel e non una donna provvista di occhi, ormoni, e un cuore. Il sesso tra noi è bandito, ma questo non significa nulla, perché lo amo da morire.
Non glielo dirò mai, non saprà mai che ho chiamato Luca il cuscino e lo sbaciucchio e lo rassetto e lo strizzo come una bambinetta fa con un peluche. Ignorerà per sempre che quando, come adesso, fingo di essere inviperita perché ho perso il sonno, sono divorata dal tormento, e mortalmente infastidita al pensiero che l’uomo dei miei sogni rotoli in un letto a due piazze insieme a una donna appena conosciuta.
Probabilmente la mia collera dipende anche dalla frustrazione sessuale. Non faccio l’amore da una vita.
Mia madre sostiene che sono troppo torpida, che dovrei darmi una mossa, accorciare le mie gonnelle da suora, decidermi finalmente ad aprirmi, e detto da una che, dopo venticinque anni di matrimonio, ha avuto una scappatella con un ballerino di salsa conosciuto a un corso di danze latine, mi sembra un consiglio autorevole. Ma cosa posso farci se gli uomini coi quali esco non mi suscitano alcun pensiero piccante? Cosa posso farci se quando mi baciano, la mia mente divaga pensando alla bolletta del telefono, e quando mi toccano ho un’unica reazione istintiva: assestargli una ginocchiata nei marroni?
Luca mi dà un buffetto su una guancia e, mentre lo fa, la panterona lo agguanta dai fianchi. Lui si dimena, come un cane che si libera dalla pioggia.
«Farò il bravo, vai a dormire, farfallina.» mi assicura.
Ci vogliamo bene, non c’è dubbio. Semplicemente, non andiamo a letto insieme. Luca si allontana, con quella schiena sontuosa, da osservare come un’ebete, e quegli slip che ci sono ma è come se non ci fossero.
Intanto la signorina ha capito che qualcosa non va, non è del tutto scema. È esitante, e quando lui le allontana la mano ha un moto di stizza.
Li vedo sparire dentro la stanza e, nonostante abbia la certezza che farà il possibile per mantenere la parola, mi sento smarrita, sono furiosa, la gelosia mi tratta come una trottola, mi tritura, mi sbatacchia, mi rende acida e zitellosa. È quello che sono, no? Compirò trent’anni tra pochi mesi, non ho uno straccio d’uomo, ho abbandonato da poco un lavoro sicuro ma deprimente e domani dovrò sostenere un colloquio come se fossi una ventenne appena sputata dall’università.
Non lavo il frigo da una vita, non esco da dieci vite, ho questi capelli farneticanti che hanno fatto un colpo di stato sulla mia testa, e non ho più una casa, in fin dei conti, visto che ogni sera devo condividerla con la bonazza di turno, bionda, mora, rossa, una volta calva, un’altra volta blu cinese.
Prendo una barretta di fondente dalla dispensa e mi chiudo nella stanza. Sgranocchio rabbiosamente la cioccolata e la tratto male, come se fosse colpa sua. La inghiotto con dispetto, sottoponendola al castigo della digestione.
Credo di avere l’ulcera da quando Luca è diventato il mio coinquilino. Del resto, in risposta al mio annuncio sul giornale si sono presentati solo in tre, non che avessi molta scelta.
La prima, una ragazza vestita come una figlia dei fiori, dopo soli tre secondi dall’ingresso già criticava la disposizione dei mobili e l’orientamento della finestra che, a suo dire, erano pericolosamente contrari ai dettami del Feng-Shui.
Il secondo era un quarantenne che puzzava di erba marcia e mi fissava le tette con insistenza anche mentre parlava della sua passione per l’arte topiaria.
Il terzo era Luca... vista la situazione, era il minore dei mali.
Lui non mi ha fissato le tette, forse perché, dall’alto della sua lunga pratica, aveva già capito che non c’erano. Ho scelto Luca perché ha riso, perché ha scherzato, prima ancora che per il suo fascino, e nonostante sia il tipo più sconcertante che il destino mi abbia spiattellato davanti agli occhi, mi sono sentita subito a mio agio.
È divertente, solare, spiritoso, e sebbene si dia fin troppo da fare per confermare l’idea rifritta del maschietto predatore, ho la certezza che, in fondo, celi un animo sensibile. Ha solo questo difetto: l’uso delle donne come fazzolettini di carta. Separato da questa pessima consuetudine - e dal caos post atomico della sua stanza - è un ottimo compagno d’appartamento.
Comunque ho l’ulcera. Mi brucia la pancia, quasi tutte le sere, mentre si diverte nell’altra stanza. Una volta gli ho detto: «Hai trentadue anni! Non pensi sia venuto il momento di comportarti da adulto e provare a innamorarti? Almeno vedrei sempre lo stesso culo in giro per casa.»
Mi ha risposto sorridendo e scrollando le spalle: «L’amore non esiste, Carlotta. È una stronzata per adolescenti, o, al massimo, una malattia assolutamente curabile. Proprio perché non sono un ragazzino posso assicurartelo: in trentadue anni di vita non ho mai provato nulla, e di donne ne ho viste tante. Non voglio una che mi dorma accanto, o che mi parli, o che mi ascolti. Voglio solo scopare. E poi, ognuno a casa sua»
È sempre molto esplicito lui. Non l’ho mai sentito dire “fare l’amore”.
Per fortuna il silenzio inghiotte finalmente la casa. Mi sembra di udire l’eco di una lievissima discussione, e capisco che si tratta di un monologo irritato da parte della ragazza che viene congedata senza alcun riguardo. Sento i suoi passi sul parquet, e qualche commento su quanto siano povci cevti uomini. Ha vagione, non c’è dubbio. Cioè, se si sente mortificata, non posso darle torto: ma sono egoisticamente lieta di questa espulsione. Le concedo perfino di portarsi via l’elastico, purché si dissolva al più presto insieme al suo tanga interdentale.
Luca fa scorrere l’acqua della doccia, e già immagino la piscinetta che si creerà intorno, e le impronte dei suoi piedi bagnati per tutta la casa. Ma non mi importa. Ora forse potrò dormire, anzi l’intero condominio potrà dormire.
Mentre chiudo gli occhi, sento un picchiettio sulla porta. Un secondo e Luca entra, con un asciugamano striminzito stretto intorno ai fianchi. Ma ci è o ci fa? Mi considera davvero l’equivalente di un vecchio comodino? Perfino i suoi polsi mi fanno avvampare, e le dita delle mani, e i gomiti, e i lobi delle orecchie e… mi sa che sono cotta.
«Dormi?» mi chiede a voce così alta che se pure fossi stata tra le braccia di Morfeo, mi avrebbe ricondotta sulla terra a pedate. Non aspetta una mia risposta, entra e basta, gocciolando come un novello Pollicino che dissemina acqua al posto delle briciole di pane. «Volevo augurarti in bocca al lupo per domani, per quel colloquio, perché forse non ci vedremo. Ho intenzione di dormire un po’, per poi scrivere.»
Già, non vi ho spiegato che Luca è uno scrittore. Ero troppo impegnata a dirvi che è un gran figo. Ha pubblicato qualche romanzo, ma senza grande successo di pubblico. Ha una certa confidenza con la parola scritta, ma le sue storie sono troppo truculente, definirle splatter è un eufemismo. Però è bravo, ed è alla perenne ricerca dell’opera che lo renderà famoso.
«Grazie» gli dico, mentre mi sta inzuppando il letto.
«Scusa per il chiasso, ma sai com’è…»
«No, non so com’è.» obietto, visto che sono quasi vergine, dopo più di un anno di astinenza integrale.
«Sei troppo rigida. Dovresti uscire con qualcuno.» Mi guarda, con una luce strana nelle pupille, i capelli che grondano sulla testiera del letto, rischiando di creare un corto circuito col filo della lampada da notte.
«Per poi essere buttata fuori casa come una ladra? Come hai fatto tu con miss culo perfetto? No, grazie, non ci tengo.»
«Potresti invitare qualcuno qui, così saresti tu alla fine a dargli il benservito.»
«Per te non esiste la possibilità di gradire che qualcuna si fermi, vero?»
«No!» esclama sconvolto. «Non mi è mai successo!» Ne parla con disgusto, credo che sarebbe più propenso a inghiottire una blatta viva.
«Non è mica come ritrovarsi la testa mozzata di un cavallo sul cuscino.»
«Molto più lamentosa, di certo. Se dai spazio alle donne quelle si espandono, cominciano a non accontentarsi del sesso e pretendono attenzioni.»
«Ti rammento che anch’io sono una donna.» Sono un po’ irritata, non tanto perché ha offeso la categoria alla quale dichiaro di appartenere, ma perché mi parla come se fossi un suo amico al bar. Tra un po’ faremo una scommessa su chi ha il pisello più lungo e forse ci cimenteremo in una gara di rutti.
«No, tu non sei una donna. Non in quel senso.»
«Grazie per il complimento.»
«Scema!» Mi si avvicina, e l’asciugamano si sposta, mettendo in evidenza le sue famigerate pudenda e un frammento di fondoschiena. Si copre ridendo, e mi abbraccia, e non sa quanto mi fa male, e quanto avrei voglia di dimostrargli che sono donna, invece, in tutti i sensi.
Ho il cuore che va a mille, e tossisco, per impedirgli di sentirlo e di capire che appartengo alla schiera delle sdolcinate creature che non si accontenterebbero del sesso e pretenderebbero le attenzioni di cui parla così male, invece di rivestirsi in fretta e furia e scendere le scale di casa imprecando.
Lo guardo, lo annuso a distanza, sembro un cane che fiuta un tartufo sepolto, profuma di sapone, ed è umido come un’alga. Accidenti, credo proprio di amarlo: forse sarebbe meglio che lo sfrattassi. Continuare così è dura. Spero che mi assumano domani, spero che mi mandino in giro per il mondo o che mi diano dei turni serali, così non sarò a casa durante le prossime cavalcate. Forse potrei insonorizzarmi la stanza. No… morirei comunque, anche non sentendo: mi basterebbe immaginare. Lo respingo, fingendomi infastidita. Luca si alza, si stiracchia, e dichiara di avere sonno. Va via canticchiando sottovoce. Sospiro e spengo la luce. Mi addormento tardi, col sapore della cioccolata sulla lingua.

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